di Fabio Pelini
Nell’estate di fuoco e cenere, nubifragi e afa che stiamo vivendo rischia di consumarsi un drammatico scivolamento verso la povertà assoluta per milioni di famiglie italiane.
Qualche dato aiuta a comprendere meglio un pericolo che paventa per la stagione che verrà un autunno caldo, anzi caldissimo. E, almeno questa volta, gli effetti del cambiamento climatico c’entrano poco.
Secondo i più recenti dati Istat, la popolazione a rischio di povertà o esclusione sociale – ossia che subisce gli effetti di una delle condizioni relative a reddito, deprivazione o intensità di lavoro – è pari al 24,4% (parliamo di oltre 14 milioni di persone), mentre il 4,5% della popolazione (oltre 2 milioni e mezzo di persone) si trova in condizioni di grave deprivazione materiale e sociale, cioè presenta almeno sette segnali di deprivazione tra i tredici individuati dal nuovo indicatore Europa2030. Se questi dati, a dir poco allarmanti, li abbiniamo al potere d’acquisto dei salari, il quadro che ne viene fuori risulta devastante.
I salari reali, infatti, sono diminuiti in tutti i Paesi Ocse, ma in nessuno nella misura che ha riguardato l’Italia. Il nostro Paese ha fatto registrare il calo più consistente tra le principali economie Ocse: alla fine del 2022, i salari reali da noi erano calati del 7,5% rispetto al periodo precedente la pandemia, rispetto alla media Ocse attestata al 2,2%. Insomma, più che una differenza, un abisso.
E’ evidente che la perdita di potere d’acquisto ha un impatto decisamente più incidente sulle famiglie a basso reddito, che hanno una minore capacità di fronteggiare l’aumento dei prezzi con il risparmio o tramite l’indebitamento. Ma anche per i ceti medi un’erosione così importante ha generato rinunce importanti nell’ambito del proprio tenore di vita.
Se consideriamo l’Abruzzo, poi, i cittadini a rischio di povertà sul totale della popolazione è pari al 27,5%, mentre le persone con gravi o gravissime deprivazioni materiali rappresentano il 6% della popolazione: entrambi i valori ci dicono che viaggiamo ad una media sensibilmente superiore rispetto al dato nazionale.
In questo contesto – che certamente ha cause di medio e breve periodo, non ultima la guerra in corso tra Russia e Ucraina – appare oltremodo gravida di conseguenze la scelta del Governo presieduto da Giorgia Meloni di abolire il reddito di cittadinanza, un sostegno economico che ha salvato dalla disperazione migliaia di famiglie. Nella situazione attuale è una scelta incomprensibile, al netto dell’ideologia che la sottende. Ma non è certo l’unica perplessità a farsi largo rispetto all’azione politica messa in campo dal Governo. Anche quella di rinviare sine die l’introduzione del salario minimo tradisce la distanza dell’Esecutivo dai reali bisogni dei ceti più fragili, in particolar modo da coloro che si arrabattano con stipendi da fame e che necessiterebbero di misure decise per uscire dal gorgo della drammaticità in cui vivono, o sarebbe meglio dire sopravvivono.
Ora, acclarato questo aspetto – che fuori dallo spirito di parte dovrebbe apparire finanche tautologico – una questione andrebbe approfondita, se non altro per ragioni di igiene politica: le opposizioni di centrosinistra, a tutti i livelli, si battono per provvedimenti in favore dell’istituzione di un salario minimo, per puntellare il potere d’acquisto dei salari, per il mantenimento del reddito di cittadinanza; un osservatore attento, tuttavia – e scevro da logiche di appartenenza – potrebbe chiedersi legittimamente se le proposte avanzate dalle opposizioni oggi siano le medesime di quando governavano ieri. E’ evidente che si tratta di una domanda retorica.
Troppo spesso – e vale un po’ per tutti a dire il vero – le misure proposte dall’opposizione mutano d’emblèe quando si arriva al Governo. Di prove se ne possono rintracciare a iosa, purtroppo: ora, abbiamo davanti agli occhi quelle del centrodestra e della Meloni in particolare (piano accise, migranti, armi all’Ucraina), ma non mancano esempi clamorosi anche dall’altra parte: il Partito Democratico, che sta giustamente sostenendo in queste settimane una intensa battaglia contro la soppressione del reddito di cittadinanza, nel 2019 votò convintamente contro l’introduzione dello stesso da parte del governo Conte I. Qualcuno dirà che nel mentre i dem hanno cambiato gruppo dirigente e il nuovo corso a guida Elly Schleinn sembra offrire segnali chiari per fronteggiare la montante questione sociale in questo Paese.
Tuttavia, molti dei dirigenti di allora rivestono ancora un ruolo importante nel partito e, se dall’opposizione radicalizzare le proprie posizioni è sicuramente esercizio più agevole, è in primis al Governo che si misura efficacia e serietà nell’azione di una forza politica. Troppo spesso – e negli ultimi vent’anni è avvenuto in misura ancor più evidente per i vincoli dettati dall’Unione Europea – la politica nel nostro Paese ha seguito quel che per il poeta ottocentesco Ugo Foscolo rappresentava esistenzialmente la legge del pendolo: la vita oscilla proprio come un pendolo tra ciò che è illusione e ciò che è disillusione. Che tradotto in ambito politico impersonifica le tante speranze coltivate dall’opposizione, che poi mutano in altrettante delusioni una volta al Governo.
La politica italiana (e non solo italiana) non riesce proprio a distaccarsi da questa logica.
Ecco, forse uno dei punti che con più urgenza le forze progressiste dovrebbero affrontare è esattamente questo: costruire, in tempi di opposizione, una proposta politica realmente alternativa a quella dello schieramento avversario, sulla quale chiedere la fiducia alle cittadine e ai cittadini che, quando accordata, si traduca in leggi dello Stato e in un’idea di Società. Ne guadagnerebbero un’intera area politica e culturale – che potrebbe finalmente tornare ad immedesimarsi in un’idea che non sia soltanto esercizio retorico prima e di potere poi – e tutto il sistema della rappresentanza in generale, oltre ad innescare un circolo virtuoso in grado di invertire, con ogni probabilità, la tendenza ad un astensionismo impressionante nella sua crescita, che depaupera l’idea stessa di democrazia compiuta e deprime alle fondamenta il vivere comunitario.
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