di Fabio Pelini
Amal Khayal è una cooperante palestinese della ong CISS, che porta avanti progetti solidali di sviluppo a favore delle comunità umane dei tanti sud del mondo. E’ dalla fine degli anni Ottanta che CISS opera nei Territori palestinesi occupati. Dopo il 7 ottobre la sua azione si è concentrata su progetti alimentari, per i bambini e per la dignità delle donne, offrendo loro tramite “pacchetti dignità” assorbenti, beni di igiene personale, vestiti, biancheria intima e tutto ciò che può agevolare l’autonomia femminile.
L’abbiamo incontrata in un torrido pomeriggio d’agosto per ascoltare la sua storia di donna nata e cresciuta nella Striscia di Gaza, che ha vissuto sulla sua pelle la sofferenza senza fine di un popolo, quello palestinese, a cui negli ultimi cinquant’anni è stato sottratto il territorio da sotto i piedi metro dopo metro, con un progetto di aggressivo colonialismo da parte di Israele.
E tutto questo è accaduto ben prima del 7 ottobre 2023.
La Striscia rappresenta la parte meno estesa dei territori palestinesi, mentre quella più grande è la Cisgiordania o West Bank. A separare i due territori, però, c’è proprio lo Stato di Israele.
Lunga circa 48 km e larga appena 9, l’area è divisa in cinque cantoni, amministrati autonomamente. La popolazione è in larga parte formata da profughi palestinesi, giunti nel 1948 per mettersi in salvo dalla guerra arabo-israeliana.
Per oltre quarant’anni, tuttavia, hanno vissuto sulla Striscia anche i coloni israeliani, in una complessa vicenda di occupazioni che ha avuto una tregua nel 2005, quando la Striscia di Gaza è stata liberata formalmente, per poi essere messa sotto schiaffo nel 2007 con l’embargo integrale (via terra, via mare e via aria) da parte dello Stato ebraico.
Ma è dalla contingenza di questi ultimi giorni convulsi che iniziamo il nostro ragionamento con Amal: meno di una settimana fa, infatti, il premier israeliano Netanyahu ha annunciato la sua ultima follia, l’occupazione totale di Gaza.
“Se l’Italia e la Comunità internazionale non prendono al più presto una posizione chiara, arriveremo alla catastrofe e alla cancellazione di un popolo intero”. Non usa mezzi termini la cooperante palestinese e, d’altra parte, sarebbe strano ascoltare parole diverse da chi, fin da bambina, ha dovuto assistere con i propri occhi a violenze e sopraffazioni di ogni risma.
Ascoltare la sua testimonianza lascia un segno profondo, nonostante da mesi si susseguano resoconti aberranti sulle azioni dell’Idf, l’esercito israeliano.
Comprendiamo dalle parole emozionate di Amal come gli spari sulle persone in fila per un tozzo di pane o le esecuzioni a freddo di donne e bambini rappresentino solo la punta dell’iceberg di una violenza disumana e disumanizzante, che mira a cancellare ogni traccia di dignità umana nel martoriato popolo gazawo.
Un orrore che ha assunto forme talmente concrete che il dibattito capzioso su come definire quel che accade a Gaza assume connotati stucchevoli e profondamente offensivi: cos’altro deve accadere per chiamare con il suo nome effettivo la tragedia in atto?
“Ho vissuto solo un mese dell’inizio di questo genocidio e non posso dimenticare quello che ho visto. Eppure è niente rispetto a quello che stanno sopportando oggi i gazawi. Stanno lottando per la sopravvivenza senza cibo, acqua, prodotti igienici, carburante, gas. Costantemente sotto le bombe, sapendo che ogni giorno può essere l’ultimo”.
Per non parlare dei bambini, anime innocenti che quando non muoiono sotto i bombardamenti, deperiscono lentamente con corpicini ridotti pelle e ossa per la fame: sono oltre ventimila quelli morti, con stime spesso al ribasso. C’è chi parla del doppio e persino del triplo. E molte di quelle creature che riescono a scamparla si ritrovano in ospedale senza più nessuno che possa badare a loro, con le famiglie interamente falcidiate dalle bombe o a colpi di fucile.
Si dirà: è l’atrocità della guerra, di ogni guerra. Vero, ma a Gaza non si fronteggiano due eserciti, c’è soltanto quello israeliano, fornito di tutto punto delle sofisticate armi degli Stati Uniti, ma anche dell’Unione Europea.
Proprio quell’Unione Europea che solo nelle ultime settimane sta timidamente prendendo posizione contro il governo israeliano. Con molti distinguo, peraltro, tra i vari Paesi aderenti, tra i quali non brilla di certo il coraggio dell’Italia che, al netto di qualche condanna d’ufficio, continua a rifiutare il riconoscimento dello Stato palestinese, ad opporsi a qualunque sanzione nei confronti dello Stato ebraico e a commerciare armi – seppur in misura ridotta rispetto ad altri – con Israele.
Addirittura, nel giorno in cui l’esercito israeliano ha causato decine di vittime colpendo un campo di sfollati a Gaza, il vicepremier Matteo Salvini è stato insignito alla Camera dei deputati del Premio Italia-Israele 2025 per l’amicizia dimostrata. E che dire della premier italiana? Giorgia Meloni ha passato mesi senza proferir parola, quasi come se la carneficina di Gaza non la riguardasse, e quando l’ha fatto non ha avuto di meglio da dire che “i tempi non sono maturi per il riconoscimento dello Stato palestinese”. Sulle parole e le (mancate) iniziative del ministro degli Esteri Antonio Tajani, poi, è meglio stendere un velo pietoso.
Anche su questo aspetto Amal va dritta al punto, ma ci tiene a fare una precisazione: “Lo stato italiano e la comunità internazionale sono complici del genocidio, ma cosa diversa è il popolo italiano che, invece, sta dimostrando una vicinanza e una solidarietà incredibili al popolo palestinese. Siamo grati e consapevoli che ognuno di noi nel suo piccolo può fare tanto: anche con azioni di boicottaggio verso prodotti israeliani”.
In questo mondo sull’orlo del baratro, la solidarietà appare oggi come il solo vero antidoto alla barbarie.
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