Qualche parola… per Giorgio Massari, ju Boss

Qualche parola… per Giorgio Massari, ju Boss
04 Giu 2023

di f.a.

Per raccontare di Giorgio Massari e della Cantina del Boss, bisogna partire da lontano.
E per quanto possa sembrare un paradosso, tutto ebbe inizio con la più grande crisi economica del mondo: il crollo di Wall Street nel 1929 e la Grande Depressione che sconvolse il pianeta per tutti gli anni successivi.
Mariano Massari, il padre di Giorgio e di Franco, negli anni ’20 era emigrato in America, come migliaia, milioni di italiani in quel dopoguerra. Aveva trovato un lavoro importante, nella città di Uniontown in Pennsylvania in una delle aziende del mitico Rockfeller, ed essendo il capo di uno dei reparti dell’acciaieria lo avevano chiamato il Boss.
Quando scoppiò la crisi Mariano Massari capì che era meglio tornare in Italia e all’Aquila, con i risparmi accumulati, nel 1931 comprò la cantina che si trovava lì, all’angolo tra via Castello e piazza Regina Margherita: in origine lo spaccio del vino avveniva nel locale più piccolo, quello dove adesso c’è la grata di ferro battuto e scendendo qualche gradino ora si depositano i cartoni del vino. Allora in fondo alla stanza c’era un piccolo bancone e in basso le grandi botti da cui si spillava il vino.
Si chiamava, in origine, La Cantina dej’omo niro perchè di notte la statua del Nettuno che sovrasta la fontana di Piazza Regina Margherita sembrava proprio un uomo nero.
La cantina divenne subito un punto di riferimento, un luogo di incontro per gli operai, gli artigiani, la gente semplice, quelli che dopo il lavoro avevano bisogno di un bicchiere di vino, di incontrarsi e chiacchierare prima di rientrare a casa. E divenne anche una mensa popolare quando furono realizzati gli impianti sportivi voluti da Adelchi Serena e donna Rosa si mise a servizio degli operai impegnati nell’opera: cucinava a casa e serviva il pasto in cantina.
I Massari il vino lo producevano, dovevano farlo, perché questo imponevano le regole del tempo. Così compravano l’uva dalle vigne coltivate a Corfinio, producevano il vino, lo conservavano in grandi botti di cemento, lo imbottigliavano e poi lo vendevano in cantina e nelle case.
Soprattutto Giorgio era il protagonista di questo lavoro che avveniva in un magazzino di via Castello (adesso c’è il negozio ToFino) da dove poi partivano con un piccolo mezzo (prima un moto Guzzi, poi un Apecar) anche per le consegne a domicilio. Un lavoro sfiancante, faticoso: a portare cartoni di vino, damigiane e fiaschi lungo le scale fin dentro le case delle persone: a me Giorgio raccontava di avere ancora le chiavi dell’ascensore del mio palazzo (uno dei primi ad essere installato all’Aquila) che papà gli aveva dato per risparmiargli almeno quei tre piani di scale.
Gli aneddoti sulla sua vita sono infiniti. Infiniti come le interminabili partite a carte con gli amici di una vita in quel posto che Rocco Papaleo ha pubblicamente definito una “Babele sentimentale” dove si potevano incontrare intellettuali e artigiani, ricchi e proletari, giovani e anziani in una contaminazione creativa e socialmente indispensabile.
Giorgio e Franco (la loro sorella, Marisa, per intere generazioni di aquilani è stata la straordinaria professoressa Colista, insegnante di inglese) divennero ben presto protagonisti assoluti dell’impresa di famiglia perché il loro padre, Mariano, morì ancora giovane a 45 anni. Successivamente la moglie, Rosa Ciuffetelli, sposò il miglior amico di Mariano, Gino La Rosa, con cui ebbe due figli: Bruna e Lionello.
La cantina con successive ristrutturazioni assunse l’assetto attuale alla fine degli anni ’70 quando il bancone per la mescita fu collocato nel salone centrale, prima di essere sostituito nel 1983 da quello attuale: una vera e propria opera di ingegno. Il bancone attuale fu progettato e realizzato a Padova da un mastro artigiano Evelino Tognazzi e una volta trasportato all’Aquila per montarlo dovettero far scorrere il bancone che è un pezzo unico di legno – circondato da una pergamena o pelle d’asino, quella che si usa per i tamburi – utilizzando i carrelli in ferro del vetraio Patacchiola.
Il legame con la città è stato sempre testimoniato anche dalla tradizione della Madonna del Carmelo, ancora oggi onorata: per contribuire ai festeggiamenti della Vergine a cui è dedicata la Chiesa a un centinaio di metri dalla Cantina, donna Rosa decideva di aprire straordinariamente la Cantina nella domenica più vicina al giorno della celebrazione (il 16 luglio) offrendo vino e focacce ai devoti e ai passanti. E per l’occasione, la Banda che attraversava i vicoli e le strade del quartiere, si fermava alla Cantina per suonare “Rosamunda” e l’Internazionale, l’inno dei lavoratori.
Grazie al lavoro infaticabile di Giorgio, insieme a Franco e ai giovani eredi Pierluigi, Mariano e Fabrizio e per un periodo anche Lionello, la Cantina non ha mai perso un colpo: ad esempio nel ’71 – nei giorni della rivolta e degli scontri per il Capoluogo di Regione – furono gli unici a rifornire l’ospedale San Salvatore di olio e del pane che Giorgio prendeva al fornaio, quando tutti gli altri approvvigionamenti erano bloccati.
Il resto è storia recente: il terremoto del 2009 e subito – con l’agibilità provvisoria per tenere aperta la Cantina mentre tutto l’edificio era puntellato – la riapertura solenne e festante in quell’8 dicembre 2009 quando la piazza si riempì di vita e di voglia di riscatto. E ancora la tradizione dell’aperitivo della vigilia di Natale che ha finito per contagiare tutto il centro storico. Poi il trasferimento nel nuovo locale Il Boss 2.0 tra il 2016 e il 2018. Infine la scelta di dividere le strade con due distinti percorsi affidati ai figli.
Di questa storia Giorgio ha incarnato e conservato tutto, fino alla fine: l’orgoglio per il suo straordinario lavoro e l’amore per la gente, per il popolo; la spontaneità del carattere e la memoria di ogni episodio, la simpatia competitiva di quando giocava a carte, le battute brucianti, i momenti di affetto e la forza: la forza del suo carattere e del suo fisico. Giorgio aveva alle braccia e alle mani una forza che faceva impressione e che ti dimostrava piegando con le dita i tappi della birra!
Giorgio è stato il custode delle confidenze, dei piccoli segreti, dei rapporti privati, di amori o tradimenti, dei litigi e delle feste che la Cantina ha ospitato in quasi un secolo di storia: storie che solo lui sapeva e gelosamente proteggeva perché “quello che succede in cantina, deve rimanere in cantina”.
Giorgio Massari ci mancherà, tantissimo. È stato un pezzo di storia di tutti noi. Non solo della cantina, ma dell’intera città, delle migliaia di persone che l’hanno conosciuto, lo hanno ammirato, gli hanno voluto un bene dell’anima.


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