di Fabio Pelini
Proviamo a ipotizzare un gioco di fantasia. Supponiamo che una persona comune si sia svegliata sabato dopo un lungo letargo e si sia trovata a passare a Roma dalle parti di Piazza del Popolo. Davanti ai suoi occhi migliaia di bandiere dell’Europa e l’ostentazione orgogliosa dei valori alla base del Vecchio Continente. Quell’ignaro cittadino si sarebbe probabilmente interrogato se davvero l’anno in corso sia il 2025 o se invece, molto più realisticamente, ci si ritrovi a cavallo tra la fine dei Novanta e l’inizio degli anni Duemila, quando l’introduzione della moneta unica doveva rappresentare il viatico per l’unità politica del continente europeo e le magnifiche sorti e progressive sembravano essere la cifra inconfutabile di un nuovo corso.
Dopo essersi sincerato di trovarsi davvero nel 2025, il nostro cittadino avrebbe dunque dedotto che l’Europa è ancora di là da farsi, se in tanti sentono l’impellenza di declamarne valori e principi, che normalmente servono sì come il pane, ma vanno esperiti all’atto della fondazione, non decenni dopo. E la questione, andando a stringere, è tutta qui, ed appare un rompicapo (quasi) irrisolvibile.
Perché, se è vero che oggi servirebbe una rifondazione dell’Unione europea, è altrettanto chiaro che scendere in piazza per l’Europa a oltre trent’anni da Maastricht e oltre venti dall’ingresso nell’euro è la certificazione che quell’idea di Europa, tante volte richiamata idealmente nelle ultime settimane a partire dalle sue radici e peculiarità, e plasmata sul Manifesto di Ventotene, non c’è e con ogni probabilità non ci sarà. E non ci sarà non perché Trump è brutto e cattivo o perché Putin ha chissà quali mire espansionistiche: no, non ci sarà perché l’Unione europea ha compiuto degli errori esiziali, che ne hanno compromesso credibilità e autorevolezza.
L’Europa, con una storia millenaria e forgiata nel secolo scorso sul modello di Stato sociale che tutti conosciamo, è oggi lanciata verso un mastodontico piano di riarmo da 800 miliardi di euro, che tradotto significherà tagli a sanità, scuola, università, ricerca, energie rinnovabili. Per investire sulle armi perché – dicono – Putin è come Hitler e gli accordi su Kiev saranno come quelli nella Monaco del 1938. Con l’aggravante che ora gli Usa si sono sfilati e non ci difendono più. Omettendo però, non si sa con quale tasso di buona fede, che in tre anni di guerra – dopo l’invasione russa dell’Ucraina – l’Unione europea si è rivelata incapace di costruire una posizione autonoma dagli Stati Uniti che le suggerisse uno sbocco politico per quel conflitto e non l’invio di armi sine die fino ad un’impossibile vittoria finale. Sarebbe stata necessaria l’apertura di un canale diplomatico e non, com’è invece avvenuto, fare gli utili idioti della guerra per procura. Perché è successo, e non era difficile prevederlo, che la vittoria di Trump alle presidenziali ha cambiato l’approccio americano alla guerra e messo in atto un processo di ridefinizione del nuovo ordine mondiale. Processo nel quale l’Europa si è fatta trovare totalmente impreparata.
Quell’Europa invocata a Piazza del Popolo non ci sarà perché ancora oggi le classi dirigenti europee non riescono a dire parole chiare sul genocidio in corso a Gaza, di fronte ad Israele che – è notizia delle ultime ore – nella notte ha violato la tregua, bombardando scuole e campi profughi e uccidendo oltre 350 persone in un colpo solo: siamo ad oltre 60mila vittime dall’inizio del conflitto (con migliaia di donne e bambini). Anzi, di fronte al mandato di arresto della Corte Penale internazionale nei confronti del premier israeliano Benjamin Netanyahu, il primo ministro polacco Donald Tusk (la Polonia fa parte dell’Unione europea) e il ministro degli Affari esteri italiano Antonio Tajani si sono recentemente premurati di rassicurare che Bibi è il benvenuto nei loro paesi e che non sarà arrestato. L’Europa che smentisce se stessa. E non si dica che Piazza del Popolo sosteneva altro, perché in quella piazza erano in molti a pensarla in maniera simile a Tusk e Tajani, con molti altri che pur pensandola diversamente continuano a balbettare sulla mattanza mediorientale. Ci può essere un’idea di Europa che vada in ordine sparso su un qualcosa di enorme come un genocidio? No, non può esserci.
E allora, va da sé che una piazza è forte e duratura se è unita sulle idee di fondo da perseguire, se con la Russia cerca il dialogo e non le minacce, se in Medio Oriente condanna il genocidio senza tentennamenti e senza compiere distorte equiparazioni con il terrorismo; se ai popoli europei offre diritti sociali e civili e non cappi al collo come fatto con la Grecia, catene ai prigionieri come visto in Ungheria, accordi disumani come quelli sottoscritti con la Libia.
Siamo tutti europeisti se l’Europa si rifà alla Grecia antica, dove l’ospite era sacro e l’accoglienza benedetta da Zeus; se l’Europa si riallaccia coerentemente ai principi illuministi e non fomenti l’intolleranza verso altre culture, come fatto con la Russia finanche in ambito sportivo; se l’Agenda 2030 – bellissimo quanto inutile manifesto di intenti che parla di uguaglianza, pace e ambiente, da anni sventolato nelle scuole come una bandiera – si traduce realmente in azioni politiche e non resti un feticcio, peraltro frettolosamente archiviato per passare dal Welfare state al Warfare state.
Su queste basi potrà crescere, rafforzarsi e avere un futuro l’Europa. Certo, anche con un esercito comune, piuttosto che con 27 eserciti diversi che generano un’industria della difesa frammentata, incapace di produrre su scala e senza una standardizzazione delle attrezzature. Determinando in tal modo una spesa maggiore a fronte di una minore efficacia.
Da questo bisognerebbe ripartire, e non da messaggi confusi che provengono da piazze dove a sfilare c’è tutto e il suo contrario, mentre quelli che hanno condotto in maniera miope e cinica l’Europa contro un muro, sono gli stessi che invece di lasciare raddoppiano, proponendo folli piani di riarmo. Della maggioranza di Ursula Von der Leyen, però, fanno parte anche i democratici e socialisti italiani, animatori della piazza di sabato. E allora se un tema esistenziale come quello afferente alla dicotomia guerra/pace non trova una traduzione coerente nella massima assise democratica continentale che è il Parlamento europeo, manifestare diventa un esercizio di stile.
E tante cittadine e cittadini europei, che europeisti lo sono integralmente, non solo per cultura, ma per vocazione, anagrafe, afflato ideale, continueranno a sentire l’Europa come una matrigna piuttosto che come una madre.
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