di Melania Aio
Qualche giorno fa, il 28 settembre, si è celebrata la Giornata Mondiale per l’Aborto Sicuro, un’occasione per ricordare che l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza è un diritto fondamentale. Eppure, in molte aree del mondo, e anche in Italia, questo diritto resta spesso teorico, ostacolato da barriere burocratiche, culturali e dalla diffusione dell’obiezione di coscienza. In Italia l’IVG farmacologica, tramite RU486, è riconosciuta e regolata da linee guida ministeriali, che prevedono, in casi appropriati, la possibilità di assumere la seconda dose a domicilio, estendendo l’uso farmacologico fino a 63 giorni di amenorrea. Le stesse raccomandazioni chiariscono che il ricovero ordinario non deve essere la regola, ma l’eccezione. Nonostante ciò, la realtà sul territorio resta fortemente disomogenea, tanto che secondo l’Associazione Luca Coscioni, solo Lazio ed Emilia-Romagna, permettono davvero l’aborto farmacologico a domicilio.
Uno dei principali ostacoli resta l’obiezione di coscienza, espressione di una radicata questione culturale legata a valori religiosi, morali e sociali che ancora influenzano il modo in cui l’aborto viene percepito. Una scelta immorale e non legata alla libertà personale e di autodeterminazione.
Questa, non si manifesta non solo nella scelta di non praticare l’IVG, ma anche attraverso ritardi, informazioni fuorvianti e pressioni morali. Di fatto, un diritto legale diventa spesso un percorso complesso e diseguale, costringendo chi vuole abortire a spostamenti, attese lunghe e difficoltà pratiche, con impatto maggiore su chi ha meno risorse economiche o logistiche.
Abruzzo: accesso formale, ostacoli concreti
Come riportato da Chiaro Quotidiano, le percentuali stimate di medici obiettori nelle ASL abruzzesi sono:
ASL Pescara: oltre 90 %
ASL Chieti: oltre 90 %
ASL Teramo: circa 80 %
ASL dell’Aquila: circa 75 %
In questo contesto regionale così critico, dove i numeri parlano da soli, il caso dell’Ospedale San Pio da Pietrelcina di Vasto è stato emblematico. Il Collettivo Zona Fucsia, che insieme alla CGIL aveva organizzato il partecipatissimo corteo dell’8 marzo a Pescara, aveva ricevuto la testimonianza di una persona gestante, che aveva chiesto di restare anonima, che, circa sei mesi fa, si era recata presso il reparto di ginecologia dell’Ospedale di Vasto per richiedere un’Interruzione Volontaria di Gravidanza.
Secondo quanto riferito, la paziente era stata accolta con sguardi giudicanti, isolata in corridoio e ostacolata da informazioni false e ideologiche. La caposala le aveva detto che non era possibile procedere all’aborto perché “bisognava prima sentire il battito del feto” e che, in ogni caso, era “troppo presto” per intervenire.
Una spiegazione scientificamente infondata, ma tristemente diffusa nella retorica antiabortista: nelle prime settimane di gravidanza, infatti, non era presente un vero battito cardiaco fetale, poiché l’embrione non aveva ancora un cuore formato. Ciò che era stato percepito tramite ecografia era solo un impulso elettrico, spesso strumentalizzato per influenzare emotivamente la persona gestante e ostacolare l’accesso all’IVG.
“Quello che è accaduto in questo ospedale è gravissimo, ma non sorprende. È inaccettabile che negli ospedali pubblici si ripropongano le narrazioni dei movimenti cosiddetti pro-vita, disinformando e intimidendo chi vuole abortire. La Legge 194/78 garantisce il diritto all’IVG, ma nei fatti viene sabotata da chi antepone la propria ideologia alla salute e alla libertà delle persone. Vogliamo gli antiabortisti fuori dagli ospedali.”
— Benedetta La Penna, portavoce e fondatrice del Collettivo Zona Fucsia
Un segnale positivo, però, era arrivato dallo stesso presidio, annunciando la ripresa del servizio di IVG ambulatoriale a partire dal 2 maggio 2025, dopo mesi di sospensione dovuti proprio alla carenza di medici non obiettori. Una riapertura che, pur tardiva, aveva rappresentato un passo importante per restituire alle donne e alle persone gestanti un diritto che non avrebbe mai dovuto dipendere dalla geografia o dalle convinzioni personali del personale sanitario.
Questi spiragli di luce, tuttavia, restano ancora troppo rari. E allora viene spontaneo chiedersi: possiamo davvero accettare che un diritto fondamentale, riconosciuto dalla legge, resti così fragile, dipendente dal luogo in cui si vive, dalle convinzioni personali di chi dovrebbe garantirlo o da barriere culturali che non dovrebbero più esistere?
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