L’Halloween abruzzese: la notte delle anime e le “cocce de’ morte”

L’Halloween abruzzese: la notte delle anime e le “cocce de’ morte”
28 Ott 2025

di Alessandra Prospero

 

Molto prima che Halloween arrivasse in Europa sotto forma di festa americana, in Abruzzo si celebrava già un rito notturno dedicato ai morti, misterioso e sacro insieme: la notte delle anime.
Una tradizione contadina e montanara che, nel tempo, ha assunto forme diverse ma conserva un cuore antico: il dialogo tra vivi e defunti, tra luce e oscurità, tra paura e memoria.

Un’antica eredità contadina e pagana

Alle origini di questa tradizione si intrecciano riti pagani e cristiani.
Nella cultura agricola abruzzese, la fine di ottobre e l’inizio di novembre segnavano il passaggio stagionale dall’autunno all’inverno, il momento in cui la terra “muore” e i campi riposano.
Era il tempo del silenzio, dei raccolti chiusi, del ritorno nelle case — ma anche della credenza che i confini tra i vivi e i morti si assottigliassero.

Le anime, si diceva, tornavano per una notte a visitare le loro case, a riscaldarsi presso il focolare, a ricevere preghiere e offerte.
La Chiesa cattolica, con le ricorrenze di Ognissanti (1° novembre) e della Commemorazione dei defunti (2 novembre), inglobò nel proprio calendario queste antiche pratiche, mantenendo intatto il senso del legame con chi non c’è più.

Il “capetièmpe”: quando il tempo si apre

In molte zone dell’Abruzzo interno si tramanda la credenza del capetièmpe, il “tempo che si apre”.
Secondo la tradizione popolare, nella notte tra l’1 e il 2 novembre — o in alcuni paesi già al tramonto del 31 ottobre — il velo che separa il mondo dei vivi da quello dei morti si assottiglia fino quasi a scomparire.
Era il momento in cui le anime potevano tornare nelle loro case, e per questo si evitava di uscire, di spazzare o di chiudere porte e finestre, per non impedire loro il passaggio.
Molti raccontavano di aver udito passi leggeri, fruscii o campanelli lontani: segni della presenza dei defunti in visita.
Il capetièmpe era dunque un tempo sospeso, di rispetto e silenzio, in cui si accendevano candele alle finestre o nei cimiteri per accompagnare il ritorno delle anime e chiedere la loro protezione per l’anno nuovo.

Le “cocce de’ morte”: zucche e spiriti

La tradizione delle “cocce de’ morte”, o cocce priatorje in alcuni dialetti, rappresenta la versione abruzzese delle celebri zucche di Halloween.
I contadini scavavano grandi zucche arancioni, vi intagliavano occhi, naso e bocca e, dentro, accendevano una candela.
Queste lanterne, dalle espressioni grottesche o spaventose, venivano collocate sui davanzali, agli incroci o ai margini dei campi, per illuminare il cammino delle anime o, secondo altre credenze, spaventare gli spiriti maligni.

Non mancavano i bambini che, portando le loro zucche, bussavano alle porte recitando antiche formule per chiedere doni o dolciumi. Una delle più note recitava:

“Aneme sante, aneme purgante,
dajce ‘na mela o ‘nu cucchiar d’abbondante.”

Una richiesta semplice, ma carica di simbolismo: il dono ai vivi come omaggio ai morti.

Pane, vino e tavole imbandite

Nella notte tra l’1 e il 2 novembre, molte famiglie lasciavano la tavola apparecchiata con pane, vino e acqua, talvolta anche fave o castagne, per nutrire le anime dei defunti in visita.
Il cibo non andava toccato fino all’alba, quando spesso veniva donato ai poveri del paese.
Era un gesto di ospitalità verso l’aldilà, ma anche di solidarietà tra i vivi — un modo per mantenere intatto il legame con la comunità e con gli antenati.

Fuochi, veglie e racconti

Nei paesi dell’entroterra, specialmente tra la Marsica, la Majella e il Vastese, la notte dei morti era anche quella dei fuochi e delle veglie.
Si accendevano falò nei campi e davanti alle chiese per tenere lontane le presenze maligne e, al tempo stesso, per guidare le anime buone verso casa.
Intorno al fuoco si raccontavano leggende di spiriti, streghe, fate e lupi mannari.
Era una notte di paura e di comunità: si trasmettevano storie, superstizioni e avvertimenti morali, educando i più giovani al rispetto del mistero e della morte.

 Dal rito alla festa

Oggi, nei borghi abruzzesi, molte di queste tradizioni sopravvivono in forma rievocativa:
le “feste delle zucche”, i laboratori di intaglio, le fiere dei morti, le rappresentazioni teatrali dedicate agli spiriti e al folklore.
A Treglio, a Scanno, a Città Sant’Angelo o nelle valli del Sangro e dell’Aterno, si riscopre ogni anno il fascino delle cocce de’ morte come simbolo della continuità tra passato e presente.

Dietro la patina commerciale di Halloween, si intravede così l’essenza originaria: una notte di passaggio, di riflessione, di identità.
La luce delle candele dentro le zucche non è solo decorazione, ma memoria viva.

Le radici antropologiche del culto dei morti

Secondo gli studi di antropologi come Ernesto De MartinoGiuseppe Pitrè e Alberto Mario Cirese, il culto dei morti in Italia centro-meridionale è una delle eredità più antiche della cultura contadina.
Pratiche simili si trovano in Sicilia (la festa dei morti), in Puglia (l’osso dei morti), in Sardegna (Is Animeddas) e in Campania (’o Munaciello).
Tutte condividono la stessa logica: rassicurare la comunità attraverso il contatto simbolico con l’aldilà e trasformare la paura in rituale, il lutto in memoria, la morte in continuità.

In Abruzzo, le “cocce de’ morte” rappresentano un unicum: un ponte tra il mondo contadino e quello urbano, tra l’antico Samhain e la cristianità, tra il rito e la fiaba.
Una testimonianza vivente di come la cultura popolare sappia assorbire e reinterpretare le influenze esterne senza perdere la propria identità.

L’Halloween abruzzese non è dunque una moda importata, ma una tradizione che nasce dal cuore della storia rurale e spirituale d’Abruzzo.
È la notte in cui il buio dell’autunno incontra la luce delle candele,
in cui il silenzio dei defunti dialoga con le voci dei vivi,
e in cui le “cocce de’ morte” — le teste di zucca che ridono e piangono —
ricordano a tutti che ogni fine è, in fondo, un modo per continuare a vivere nella memoria.


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