Da Benevento a Dakar, passando per L’Aquila: il racconto di Barbara Bizzarro sul set di “Io Capitano”

Da Benevento a Dakar, passando per L’Aquila: il racconto di Barbara Bizzarro sul set di “Io Capitano”

di Fabio Pelini

Leone d’argento per la regia e premio Marcello Mastroianni per il miglior attore esordiente al Festival di Venezia; due nomination come miglior film e miglior regista allo European Film Awards; nomination come miglior film straniero al Golden Globe: insomma, un’incetta di riconoscimenti che da soli basterebbero a delineare le qualità di Io Capitano, lo splendido film magistralmente diretto da Matteo Garrone.

E il 23 gennaio scorso è arrivata la nomination più attesa, e forse la più prestigiosa per chi si esprime con la nobile arte del Cinema: Io Capitano è entrato nella cinquina che si contenderà l’Oscar come miglior film internazionale nella notte delle stelle che si terrà domani notte al Dolby Theater di Hollywood. Cresce l’attesa, nella speranza di festeggiare per l’ennesimo prestigioso riconoscimento ad una pellicola straordinaria, che in un sapiente mix di prosa e poesia racconta uno dei grandi temi della nostra contemporaneità.

Il film diretto da Matteo Garrone è stato definito un’Odissea contemporanea, in cui il nostos dei protagonisti si snoda tra le insidie del deserto, in una tempesta tanto reale quanto metaforica, che una volta attraversata cambia per sempre le loro vite. Un viaggio tra il reale e l’immaginifico, che conduce Seydou e Moussa da Dakar in Italia. Basato sulla storia vera di Kouassi Pli Adama Mamadou, Arnaud Zohin, Amara Fofana, Brhane Tareke e Siaka Doumbia, l’opera di Garrone mostra il dramma contemporaneo dell’immigrazione, capovolgendone la narrazione: non della nuova vita da sradicati si narra, ma del viaggio della speranza per mezza Africa, in un drammatico e onirico affresco di sommersi e salvati.

Abbiamo ascoltato chi questo tragico affresco di sofferenza e di utopia ha contributo a metterlo in scena. Stiamo parlando di Barbara Bizzarro, campana di origine, ma ormai aquilana di adozione, da quando nell’immediato post sisma si è trasferita nel capoluogo abruzzese per ragioni di lavoro. Barbara, infatti, è la titolare della ditta Decorarte, specializzata in scenografie, decorazioni d’arte e restauro pittorico. E, soprattutto, è stata capo pittrice di scena in Io Capitano, testimone di un’esperienza indimenticabile sia dal punto di vista professionale che umano. E’ stato molto stimolante il suo racconto, perché ad un’avventura epica si è aggiunto il portato emozionale delle sue parole.

“Mi reputo una persona molto fortunata, perché svolgo il lavoro che amo e penso che questa sia una delle grandi fortune della vita”, ci tiene a sottolineare Barbara, mentre sorseggia una tisana al bergamotto.

Da dove è iniziato il percorso che ti ha portato ad essere pittrice di scena in Io Capitano?

Beh, io nasco come decoratrice: la mia formazione è stata in decorazione all’Accademia di Belle Arti a Roma. Poi ho continuato con scenografia e ho aperto nel 2000 uno studio in decorazione d’interni. Come spesso accade nella vita, è stato il caso ad offrirmi, una decina d’anni fa o poco meno, l’opportunità di collaborare a delle costruzioni scenografiche per il cinema. Una bella esperienza in un mondo a me sconosciuto. Eravamo nel 2015. In passato avevo lavorato a delle scenografie per degli spettacoli teatrali, poi nulla più. Però ci sono cose che magari restano chiuse nel cassetto e poi vengono fuori inaspettatamente, anche se non ho mai smesso di seguire le mie passioni. Sono di origini beneventane, trasferita a L’Aquila dopo il sisma del 2009, dopo aver vissuto a Roma dal 1995.

Quale è stata la tua prima esperienza nel mondo dello spettacolo?

Ho lavorato al progetto cinematografico per il film L’immortale, diretto e interpretato da Marco D’Amore, il protagonista nella serie Gomorra. È stata un’esperienza entusiasmante, emotivamente travolgente già nella scena di apertura che riproduceva il terremoto del 1980 in Campania. Poi è arrivata l’esperienza al Dopofestival, la trasmissione di approfondimento che va in onda al termine di ogni serata del Festival di Sanremo. E’ stata quella un’avventura molto divertente. Dopo quel passaggio televisivo ho ripreso a lavorare per il Cinema, un mondo verso il quale subisco da sempre una fascinazione. Studiavo ancora all’Accademia quando mi iscrissi come comparsa all’ex Enpals, che era l’Ente nazionale di previdenza e assistenza per i lavoratori dello spettacolo: partecipai ad un casting per comparse e mi presero per Fiore, film molto bello del 2016, premiato ai David di Donatello e diretto da Claudio Giovannesi.

Quali sono i primi ricordi sul tuo lavoro nel mondo del Cinema? 

Sicuramente una delle scenografie più belle che ho realizzato è stata quella per Il pataffio, film del 2022, diretto da Francesco Lagi, con musiche di Stefano Bollani. Un film splendido, ambientato in un castello medievale con protagonista una sorta di armata Brancaleone, interpretato tra gli altri da Giorgio Tirabassi, Valerio Mastandrea e Alessandro Gassmann. Ricordo che la scenografia nacque letteralmente dal nulla, ma nonostante questo venne fuori un ottimo lavoro. Un’esperienza molto importante per me, perché mi ha permesso di raffinarmi con incrostazioni ed affreschi. Nel film, girato nel frusinate in provincia di Sora, ho sperimentato per la prima volta il lavoro in produzione, mentre prima mi occupavo solo di scenotecnica, come pittrice di scena. Un film molto importante dopo Il pataffio è stato per me Ti mangio il cuore, un gangster movie diretto da Pippo Mezzapesa, vincitore di vari premi, tra cui un Nastro d’Argento. Il film che, tra l’altro, ha portato Elodie al Cinema, e nel quale la cantante ha vinto anche un premio come migliore attrice rivelazione dell’anno. Un film intenso, in bianco e nero, tratto dal libro di Carlo Bonini e Giuliano Foschini che si occupa della mafia del Gargano.

Realizzare i più diversi ambienti deve essere qualcosa di enormemente eccitante. In particolare, in cosa consistono le differenti fasi di lavorazione?

Si procede in questo modo: il mio primo compito è studiare la sceneggiatura del film, valutare l’epoca in cui si svolge la storia ed i materiali da utilizzare. A quel punto, lo scenografo – che è il mio caporeparto – insieme all’arredatore, mi dà delle referenze, mi spiega cioè che cosa vuole realizzare. Sarà poi lui stesso a valutare la coerenza del lavoro svolto e a richiedere delle modifiche. In sintesi, lui è la mente, io il braccio.

E, nello specifico per il lavoro che fai, cosa ha rappresentato per te Io Capitano?

Un’avventura epica ed un’emozione immensa, l’esperienza più bella della mia vita. Un progetto che mi ha entusiasmato e lasciato senza parole per l’intensità vissuta in ogni istante. Ma è stato anche un impegno duro, con momenti di gioia alternati ad altri di disperazione. Il tutto avvenuto in luoghi di una bellezza indescrivibile, che sembrano fermi nel tempo. Abbiamo voluto realizzare una scenografia trasparente, che fosse cioè più fedele possibile all’autenticità dei luoghi, studiando ogni minimo dettaglio nelle costruzioni delle case, nei colori e nel loro vissuto. Abbiamo attraversato un arcobaleno di colori all’interno della povertà più assoluta.

E’ sufficiente osservare il modo in cui si illumina il tuo sguardo mentre ne parli per comprendere almeno in parte le tue emozioni. Cosa ricordi in particolare dell’esperienza con Garrone?

Ricordo tutto di quei giorni in Africa. Mi sono occupata di preparazione dei set e ho partecipato direttamente alle riprese, in modo tale che quando il regista voleva una qualche modifica, io dovevo intervenire velocemente nel realizzarla. Il mio lavoro di pittrice di scena procede di concerto con l’attrezzista e l’arredatore, seguendo le indicazioni dello scenografo. Una volta messo a punto le scenografie, si può cominciare a girare. Il regista e il direttore alla fotografia sono due figure fondamentali, e durante le riprese sono loro che possono richiedere la presenza del capo pittore per apportare in itinere le modifiche necessarie. In Io Capitano è accaduto molte volte di dover cambiare in tempo reale una scenografia durante una ripresa. Mentre durante altri ciak, si può lavorare alla sistemazione di altre scenografie.

Qual è l’immagine più toccante a cui hai assistito?

A livello emozionale, ricordo quei bambini che non avevano nulla, ma possedevano il sorriso più bello del mondo. Con la massima semplicità giocavano a calcio, senza scarpe, davanti al nostro set ed erano le persone più felici della terra. Vivono in villaggi nel cuore del Marocco in case realizzate con sabbia e bambù, ed ogni piccolo dono che facevamo loro li rendeva felicissimi. Loro ci tenevano a reciprocare, donandoci fossili di cui la zona è ricca. Sorridevo quando mi chiamavano Barabbara.

Quanto tempo sei stata in Africa per il film?

Sono partita il 28 febbraio 2021 e tornata agli inizi di maggio. Quasi due mesi e mezzo. Abbiamo cominciato in Senegal, preparando il villaggio degli attori principali, Seidou e Moussa, nella medina di Dakar. Loro e tutti coloro che hanno partecipato al film sono persone del posto, scelte da Garrone tramite casting fatti in loco. Nessuno del cast aveva mai recitato prima, come d’altra parte è abitudine di Matteo. Non sapevano che cosa andavano a fare, Garrone non ha dato loro una sceneggiatura. Semplicemente, li organizzava giorno per giorno, incoraggiandoli ad esprimere sé stessi e l’amore per la loro gente e i loro luoghi.

Nel film i protagonisti non sono costretti ad emigrare per sfuggire a guerre o alla fame. Rappresentano piuttosto il vecchio archetipo dell’emigrazione intesa come ricerca di nuove opportunità. Nella realtà, c’era da parte loro questo desiderio di cercare fortuna altrove?

Non in maniera urgente. I ragazzi protagonisti del film avevano comunque una casa, di che mangiare, la madre aveva un lavoro in un villaggio, come tanti da quelle parti. Arrivare in Europa è un sogno per realizzare le proprie passioni: Seidou e Moussa erano musicisti nella realtà, e la colonna sonora del film si basa sulle loro musiche e i loro testi.

Come hanno accolto gli attori l’improvvisa popolarità?

I protagonisti possiedono una sensibilità rara e sono rimasti umili, ma hanno ovviamente cambiato vita, è arrivata fama, successo: Seidou ha vinto a Venezia il premio Mastroianni come migliore attore emergente. A livello di recitazione sono riusciti a tirare fuori quel che avevano dentro, seguendo ogni suggerimento che Matteo offriva loro. Si è creato un bellissimo legame tanto che Garrone li ha ospitati a lungo presso la casa della madre a Fregene. Oggi sono proiettati nella carriera di attori, ma anche in quella della moda: a Los Angeles sono stati ingaggiati da Armani come modelli e indossatori.

La sceneggiatura ha subito mutamenti in corso d’opera?

Con Garrone la storia è viva, ci sono sempre degli aggiustamenti in corso, e in un lavoro durato due anni si è confrontato molto con i suoi collaboratori, come Massimo Ceccherini, Massimo Gaudioso, Andrea Tagliaferri. L’idea originaria è rimasta, ma in base ad attori e contesto Matteo ha rimodulato la sceneggiatura.

In quali luoghi avete girato il film?

Siamo partiti dalla medina di Dakar, poi ci siamo spostati per un mese a Merzouga, nel deserto del Sahara, per girare il viaggio che fanno i protagonisti per arrivare in Libia. Tutto ciò che nel film si svolge in Nigeria e in Libia, l’abbiamo girato a Casablanca, in Marocco, per ragioni di sicurezza. La parte ambientata in Libia l’abbiamo realizzata a Merzouga e a Casablanca, dove abbiamo messo in scena la parte del centro di detenzione con le sale di tortura, che in realtà è un ex carcere. La pellicola termina nel Mediterraneo, nelle acque di Marsala.

Il viaggio è un paradigma dei tanti che partono colmi di speranza per una vita migliore. Garrone ha spiegato di aver assunto come riferimento una storia vera. 

Certo, va ricordata una persona che lo ha aiutato a rimettere insieme il tutto ed è Kouassi Pli Adama Mamadou, attivista del Centro sociale ex Canapificio e del Movimento migranti e rifugiati di Caserta. Garrone l’ha conosciuto lì e lui gli ha raccontato la sua storia. Mamadou è stato con noi per tutta la durata del film, aiutandoci a ripercorrere fin nei particolari la sua odissea. Per esempio, a me indicava dove mettere il sangue finto nel centro di tortura libico, dove mettere e come legare gli ostaggi, dove posizionare alcune patine particolari. Consigli fondamentali, da una persona che ha vissuto sulla sua pelle quell’incredibile avventura, e che ci ha fatto capire soprattutto a livello emozionale che cosa significhi trovarsi in quella condizione.

Quali sono stati i momenti più toccanti nel suo racconto?

Salvarsi dall’inferno dei lager libici è un vero terno al lotto e dal film emerge chiaramente. Ma l’epica nel guidare la nave nel mare in tempesta ha qualcosa di irraggiungibile.

Cosa ti ha lasciato questa esperienza dal punto di vista umano e professionale?

Un universo di emozioni e di insegnamenti. Esiste un mondo che va oltre il nostro, dove con poco possono insegnarci tanto sulla vita. Un’esperienza che mi ha riempito a trecentosessanta gradi. Dal punto di vista lavorativo ho avuto grosse difficoltà nel reperimento dei materiali, ma gli ostacoli mi hanno stimolato ad imparare tecniche nuove, in base ai materiali che c’erano a disposizione sul posto. Non è facile trovare il bianco, i colori soliti, i pigmenti consueti: ho imparato ad utilizzare le sabbie del deserto e a patinare con quei materiali. In questo senso, la mia crescita professionale è stata notevole. Dal punto di vista umano, ci sono giorni che saranno per sempre nel mio scrigno dei ricordi più preziosi, come quando nel deserto, con 40 gradi, vedevi i ragazzi lavorare senza sosta, senza aver mangiato nulla perché era il mese del Ramadan. Oppure quando durante una fase del lavoro, mentre ascoltavo musica occidentale, hanno improvvisamente cominciato a suonare le campane, con tutti loro che hanno iniziato a cantare. Non sono riuscita a trattenere le lacrime. Un ricordo che mi dà gioia, ma che mi ha anche sorpreso, è stato vedere il lungo mare di Dakar stracolmo di ragazzi dai 14 ai 30 anni che facevano attività fisica. In molti sognano di diventare calciatori, iniziano presto a a fare sport e hanno fisici pazzeschi.

Barbara, dopo questa meravigliosa esperienza è cambiato qualcosa rispetto alle tue prospettive future?

Continuerò a dividermi tra la mia ditta e il cinema. Il lavoro che amo è nel campo delle decorazioni d’arte e del restauro pittorico, ma continuerò a lavorare in ambito cinematografico, che è un mondo affascinante e stimolante. Ho seguito un altro lavoro in un film con Antonio Albanese, ma ora mi godo la felicità che mi ha dato l’essere parte di Io capitano e ringrazio Matteo Garrone per avermi offerto l’opportunità di lavorare in un film meraviglioso.

 


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