di Fabio Pelini
Dunque, è ufficiale: la funivia del Gran Sasso può riaprire, seppure con alcune stringenti e pesanti prescrizioni. Il vertice al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, alla presenza dell’amministratore unico del Centro Turistico Dino Pignatelli, ha dato esito positivo e fumata bianca per ripartire. Dopo l’esposto di un cittadino, che aveva denunciato l’usura dei cavi, il Mit aveva imposto una verifica tramite i controlli dell’Agenzia nazionale per la Sicurezza delle Ferrovie e delle Infrastrutture stradali e autostradali. I risultati delle prove di verifica sono arrivati e il blocco dell’impianto non è più uno spauracchio.
Tutto bene, Madama la Marchesa? Difficile sostenerlo restando seri, come peraltro sta maldestramente tentando di fare chi in queste ore ha gettato acqua sul fuoco, dopo il pericolo scampato per la stagione turistica, già sotto attacco per le anomale condizioni climatiche sempre dietro l’angolo. Ma ad essere onesti, guardando oltre il teatrino della politica che travolge come uno tsunami ogni questione – che sia il merchandising attorno ad un pandoro piuttosto che la conduzione del Festival di Sanremo – tutto bene un piffero.
Dall’incontro ministeriale sono venute fuori quattro disposizioni che impongono nell’ordine: un monitoraggio costante dello stato della fune, controlli quotidiani accompagnati da report settimanali sull’impianto, la sensibile riduzione di velocità e capienza delle cabine e, dulcis in fundo, la sostituzione integrale delle funi al termine della stagione invernale.
Se rispetto alle prime due indicazioni, seppur gravose ed impattanti, si può ribattere, forse, che fanno parte dell’ordinaria gestione della funivia (ma allora perché prescriverle), sulla terza e sulla quarta tremano letteralmente le vene ai polsi. Infatti, esse impongono un numero ridotto di persone in cabina – 60 o al massimo 70 per volta – oltre ad una velocità di crociera praticamente dimezzata. E – rullo di tamburi, squilli di trombe – a fine stagione le funi dovranno essere sostituite in anticipo rispetto al termine precedentemente stabilito del 2028.
Costo dell’operazione: tra i 3,5 e i 4 milioni di euro. Una cifra importante, per utilizzare un eufemismo, che il Comune dell’Aquila, in qualità di proprietario della stazione tramite il Centro Turistico del Gran Sasso, dovrà sborsare per garantire continuità nell’utilizzo del suo bene più prezioso. Ma prima, quei soldi dovrà trovarli e non sarà impresa semplice, senza tagli e sacrifici a carico di tutta la comunità.
L’aspetto davvero inquietante dell’intera vicenda, tuttavia, è l’assoluta nonchalance con cui è stata recepita la notizia. Aiutateci a capire: se non ci fosse stato l’esposto di un privato cittadino, non ci sarebbero stati né blocco, né controlli, né conseguenti prescrizioni ministeriali. Sarebbe continuato tutto come nulla fosse, e per la sostituzione delle funi il 2028 sarebbe rimasta, in un orizzonte lontano, come unica dead line, senza fretta alcuna.
Ora, un dubbio pervade i nostri pensieri, uno di quei dubbi che ti divorano: ci chiediamo, cioè, se tutto questo – minimizzazioni comprese – sia logico, sia lecito, sia corretto. Dal punto di vista amministrativo, come da quello etico. Perché la risposta più ovvia, di fronte a questa incredibile vicenda, sarebbe che in un Paese normale – dove normale sta per funzionante – non si debba procedere a controlli, verifiche e manutenzioni a seguito di iniziative private, ma che avvengano di default e si configurino come operazioni ordinarie, verifiche sistematiche e tempestive.
Già, in un Paese normale ma non in Italia, fantasmagorico Bengodi dove l’idea stessa di salvaguardia dell’incolumità pubblica arriva sempre un attimo dopo, come accaduto in tragedie recenti, come quella del Mottarone, anno 2021, o del Ponte Morandi, anno domini 2018.
Tutto è bene quel che finisce bene, insomma, e anche stavolta l’abbiamo svangata. Almeno fino alle prossime copiose, sentite, stucchevoli lacrime di coccodrillo.
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