Non è solo una sconfitta sportiva; è l’ennesimo, traumatico segnale del collasso sistemico del calcio Italiano. La debacle per 4-1 contro la Norvegia a San Siro non è stata soltanto l’umiliazione che ci ha condannato per la terza volta consecutiva a inseguire la qualificazione al Mondiale (USA, Canada, Messico 2026) attraverso la roulette dei playoff, ma la prova definitiva che la lezione delle mancate qualificazioni del 2018 (Svezia) e del 2022 (Macedonia del Nord) non è stata compresa. Il vero avversario dell’Italia non è Erling Haaland, ma l’ottusità di una classe dirigente incapace di riformare sé stessa e il movimento che gestisce.
Ritrovarsi agli spareggi per la terza volta di fila, un record negativo in Europa, non è sfortuna, ma l’inevitabile conseguenza di un sistema malato. Siamo stati eliminati dalla Svezia nel 2018, dalla Macedonia del Nord nel 2022 e ora siamo costretti ai playoff dopo essere stati travolti da una Norvegia più organizzata, più fisica e con un bomber di caratura mondiale. Ogni ciclo di fallimento viene liquidato come “incidente di percorso”, ma la verità è che i problemi sono strutturali e rimasti irrisolti dopo le già fallimentari spedizioni mondiali del 2010 e del 2014. Nessuna svolta, l’Italia rischia di mancare il terzo Mondiale consecutivo.
Il dato più doloroso di questa crisi è generazionale: i bambini che oggi hanno dieci anni non hanno mai visto la Nazionale partecipare a un Campionato del Mondo. Questi piccoli tifosi hanno conosciuto solo l’onta dell’eliminazione e la frustrazione dei continui spareggi. È un vuoto emotivo e sportivo che spezza il legame tra le nuove generazioni e la maglia Azzurra, un sintomo lampante di quanto il sistema abbia fallito nel suo compito più elementare: regalare sogni e ispirazione.
La responsabilità principale di questa catastrofe sportiva ricade sulla classe dirigente del calcio Italiano, incancrenita da conflitti di potere tra Federazione (FIGC) e Leghe, più interessata alla conservazione delle proprie poltrone che alla crescita del movimento.
I settori giovanili sono ancora troppo spesso considerati un peso o, peggio, un serbatoio per plusvalenze fittizie. L’Italia è in coda in Europa per la percentuale di giovani Under 21 impiegati in Serie A e per il numero di giocatori cresciuti nel vivaio che raggiungono la massima serie. L’assenza di talenti, in particolare nel reparto offensivo, è il risultato diretto di questa negligenza. Se da un lato il calo demografico è un fattore oggettivo, dall’altro la Federazione non è riuscita a rendere il calcio giovanile competitivo con gli altri sport, perdendo appeal e talenti. L’Europeo vinto nel 2021 fu una splendida, quanto effimera, parentesi di riscatto, ma il fallimento strutturale è rimasto.
Ora l’Italia è costretta a due finali secche a eliminazione diretta per evitare l’onta storica. Contro avversarie che ci hanno già condannato al baratro, la pressione sarà massima. La crisi non è solo tecnica o di talento, ma culturale. Fino a quando chi gestisce il calcio Italiano non avrà il coraggio di tagliare i rami secchi, investire seriamente nelle infrastrutture e nella formazione dei giovani calciatori e tecnici, la Nazionale continuerà a navigare in un mare in tempesta, costretta a chiedere scusa ai tifosi e a sperare nella sorte per un posto al Mondiale.
È ormai un dato di fatto che il calcio Italiano ha smesso di essere un grande romanzo popolare. È diventato invece una farsa burocratica, uno specchio crudele di un Paese in ritardo su tutte le grandi sfide mondiali. Non ci si può più nascondere dietro al cinismo del risultato o a una retorica nazionalistica vuota. La verità è che il gioco è in mano a troppe persone che vedono nel calcio una rendita, non un investimento sul futuro; troppo spesso si è scambiata la fortuna con il merito. Serve una vera e propria rivoluzione culturale, un azzeramento di prospettiva che riporti il baricentro dal potere alla qualità e dal bilancio immediato alla programmazione a lungo termine. Altrimenti, l’Italia sarà condannata a un inesorabile e solitario declino.
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